“Povertà, inclusione e politiche del lavoro. Le risposte del modello della Civil Social Business city”

“Povertà, inclusione e politiche del lavoro. Le risposte del modello della Civil Social Business city”

di Maria Paola Monaco – Prof. Diritto del lavoro e della Sicurezza Sociale dell’Università di Firenze (Delegata della Rettrice all’inclusione e diversità, Presidente Corso di laurea in Servizio Sociale – Scuola Scienze Politiche, Presidente Commissione di Certificazione dei rapporti di lavoro)

Nel suo libro il “Pensiero Meridiano” Franco Cassano analizza il contrasto fra il Nord industriale e il Sud del mondo affrontando indirettamente il tema dell’indifferenza come frutto della globalizzazione e della marginalizzazione di interi popoli. Un’indifferenza che
travestita da normalità passa dalla società al singolo insinuandosi nel suo agire, rendendolo incapace di rispondere emotivamente, di commuoversi, di sentirsi parte di un progetto di vita, finanche di agire. E ciò in stridente contrasto con una società in cui le informazioni raggiungono e connettono, creando l’idea che proprio da questo stare connessi possa generarsi empatia e solidarietà ossia dei valori da porre al centro dell’esistenza.

Un’ analisi più approfondita evidenzia, tuttavia, come quelle stesse informazioni abbiano un effetto non immaginato ed opposto all’idea iniziale, andando ad innescare un’assuefazione emotiva.

Frutto – come sottolineato da Virilio – di un “inquinamento percettivo” e di una “saturazione sensoriale” in cui proprio l’indifferenza diventa una barriera protettiva che non consente di essere travolti dal dolore altrui. Il duplice atteggiarsi dell’indifferenza – individuale e sociale – prende evidenza nella politica dove questioni di estrema importanza vengono spesso trattate in modo superficiale o, addirittura, non trattate, alimentando un disimpegno collettivo sul quale si innesta la mancanza di reazioni. Rompere questo circolo fra disimpegno e mancanza di reazioni richiede una presa di coscienza collettiva.

Ed è proprio questo che dovrebbe accadere dopo aver letto i dati dell’ultimo rapporto ISTAT (ISTAT 2023) sulla povertà in Italia.

Un trend in crescita che tocca livelli mai raggiunti negli ultimi anni. La povertà assoluta colpisce in particolare i minori: circa 1,3 milioni di bambini e ragazzi si trovano in questa condizione, rappresentando il 14% del totale. Anche le fasce di età tra i 18 e i 44 anni mostrano un’incidenza significativa, rispettivamente dell’11,9% e 11,8%. Al contrario, la situazione migliora leggermente per le persone anziane, con il tasso di povertà che scende al 5,4% tra i 65-74enni, risalendo però al 7% per gli over 75.

Un altro dato allarmante riguarda l’aumento della povertà tra i lavoratori.

Nonostante una crescita dell’occupazione, il potere d’acquisto dei salari è calato del 4,5% negli ultimi dieci anni. Questo ha portato al fenomeno dei cosiddetti “working poor”, il 7,6% dei lavoratori che vive in condizioni di povertà, un aumento di quasi 3 punti percentuali rispetto al 2014. In particolare, i lavoratori appartenenti alla categoria legale degli operai hanno subito l’impatto maggiore, con un’incidenza della povertà pari al 14,6%.

La crisi sociale in atto in cui le persone più colpite sono i giovani e i lavoratori impone una presa di coscienza collettiva che elabori idee ed azioni nuove.

Che, seppur in assenza di strumenti di protezione sociale adeguati, consentano di affrontare queste disuguaglianze. I dibattiti che fioriscono intorno ai dati, come ad esempio anche quelli sopra riportati, sono stati spesso oggetto di esternazioni estemporanee dettate più dal proprio sentiment che non da una conoscenza approfondita e meditata del tema. L’occasione per un necessario ripensamento del metodo con il quale si affrontano i temi potrebbe venire dalla riscoperta del concetto hegeliano, espresso nella seconda edizione alla Prefazione della Scienza della logica, che riconosce alle determinazioni del pensare “un’efficacia determinatrice del contenuto”. Proprio in ragione di ciò se il pensiero è costitutivo della realtà l’impegno di tutti – ma in modo particolare dei ricercatori – deve andare oltre; cercare nuovi punti di partenza e nuove teorie le cui ricadute pratiche sulle azioni possano portare se non ad un beneficio, attraverso il filtro di un atto di impulso politico normativo, sicuramente ad un’attenzione su come questo atto possa avvenire.

Il tema, in questo caso, è quello della povertà.

Una povertà che trova causa in motivi in apparenza diversi ma che possono essere ricondotti ad unità allargando l’orizzonte dal particolare al generale; dall’individuo alla società nella quale egli si trova a vivere. E’ innegabile, infatti, che il modello di società influisce profondamente sui livelli di povertà attraverso una serie di meccanismi che comprendono la distribuzione della ricchezza, l’accesso ai servizi, le politiche del lavoro e la protezione sociale. Nelle società capitaliste liberali, dove prevalgono il libero mercato e la concorrenza, la povertà è spesso influenzata da una distribuzione diseguale della ricchezza.

Uno degli effetti principali è la creazione di disparità strutturali non venendo i profitti generati dalle grandi aziende ridistribuiti in maniera equa tra i lavoratori.

Un fenomeno che può portare all’aumento della c.d. “working poverty”, dove anche coloro che hanno un lavoro regolare faticano a soddisfare le proprie necessità di base a causa di salari bassi e condizioni lavorative precarie. I dati evidenziano, infatti, da un lato, un aumento delle persone in condizioni di povertà anche fra coloro che hanno un’occupazione e, dall’altro, un aumento delle persone che passano dalla precarietà alla disoccupazione creando un circolo che si autoalimenta.

All’abbandono del modello del capitalismo neoliberista, senza spingersi fino ai modelli alla “Parecon” o al “Venus Project”, si affianca la scelta teorica dell’economia sociale che tende a mitigarne gli effetti negativi promuovendo forme di organizzazione economica più inclusive, solidali e orientate al bene comune. In questo contesto, profondamente legato all’idea di un’economica sociale e solidale è il concetto di Social Business City ispirato al modello di social business promosso dal premio per la pace Muhammad Yunus.

Le politiche attive del lavoro, che mirano a favorire l’integrazione o il reinserimento nel mondo del lavoro, possono trovare nel Social Business City un partner ideale.

Per promuovere l’occupazione e l’inclusione sociale, potendosi affermare che è la stessa Social Business City ad essere una “politica attiva”. Nel perimetro di azione di una Social Business City, infatti, l’imprenditorialità sociale, sostenuta attraverso l’accesso a finanziamenti e programmi di supporto, è essa stessa il soggetto che crea lavoro per categorie svantaggiate, come giovani disoccupati, donne, persone con disabilità, migranti ect. Ed è ancora la Social Business City che interviene sulla formazione professionale e
sull’acquisizione di competenze, offrendo percorsi mirati allo sviluppo di abilità specifiche e trasversali per favorire l’occupabilità.

Nel passaggio dalla Social Business City a quello della Civil Social Business City gli elementi sopra evidenziati non svaniscono ma si rafforzano.

Se, infatti, il modello di impresa sociale rimane il modello centrale del business sociale, nella CSBC il ruolo delle istituzioni pubbliche e dei cittadini nella co-creazione e gestione di soluzione per l’inclusione rendono la città un laboratorio civico per l’innovazione sociale creando reti di collaborazione per l’implementazione di progetti di sviluppo locale in cui crescita economica e inclusione sociale sono strettamente connessi e rafforzati. Nella CSBC, infatti, il progetto non è del singolo o della singola impresa sociale ma di tutti coloro che “abitano” il territorio e che del territorio conoscono i bisogni.

In casi come questi, per riprendere il punto dal quale eravamo partiti, l’indifferenza non è la scelta, l’interesse e la sensibilità sono la scelta.