Il paradigma dell’economia civile e il modello dell’economia sociale

Il paradigma dell’economia civile e il modello dell’economia sociale

Il paradigma dell’economia civile e il modello dell’economia sociale

Il paradigma dell’economia civile e il modello dell’economia sociale

di Stefano Zamagni (economista presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali)

A mo’ di esergo, cito la celebre affermazione di Paolo VI nella Populorum Progressio: “Il mondo soffre per mancanza di pensiero”, ovviamente di pensiero pensante, non certo di quello calcolante.

Un chiarimento importante mi pare opportuno, prima di procedere. L’Economia Civile è un paradigma, parola greca che significa “sguardo sulla realtà”, che rinvia ad una particolare visione del mondo (weltanschaung). Un paradigma è dunque come il berillo intellettuale di cui ha scritto il celebre filosofo Nicolò Cusano nel XVII secolo. L’Economia Sociale, invece, è uno speciale modello economico, nato e sviluppato entro il paradigma dell’Economia Politica a partire dal secondo dopoguerra.

Quali le ragioni?

Secondo la prospettiva dell’economia politica, che – ricordo – comprende al suo interno una pluralità di teorie, da quella classica a quelle neoclassica, keynesiana, neoaustriaca, istituzionalista, l’ordine sociale si regge sulla diade Stato e Mercato, e quindi sulla dualità pubblico (Stato) e privato (Mercato). Non c’è spazio per il civile, che rinvia alla categoria di Comunità. Per il paradigma dell’economia civile, invece, l’ordine sociale poggia sulla triade Stato-Mercato-Comunità.

Nel 1942 nasce in nel Regno Unito il welfare state: è lo Stato a prendersi cura del cittadino “dalla culla alla bara” (Lord Beveridge). Né poteva essere altrimenti, considerato il contesto storico. Keynes, però, aveva pubblicato nel 1939 il celebre articolo “Welfare and Democracy”, nel quale scrive che solamente in circostanze emergenziali lo Stato deve intervenire per provvedere al welfare ma non ad infinitum, a meno di rinunciare al principio democratico.

Keynes muore nel 1946 e dunque non può intervenire a controllare la situazione!!

Per alcuni decenni le cose vanno bene, ma già nei primi anni Settanta si comincia a percepire che il modello di welfare state non è sostenibile, non solo finanziariamente, ma anche perché non in linea con il principio fondativo della liberal-democrazia, per cui non basta fare il bene per l’altro; occorre farlo con l’altro. Ebbene, il modello di welfare mix (pubblico e privato) che inizia allora a muovere i primi passi, vede la nascita delle prime realizzazioni di quella che, dopo alcuni anni, sarà chiamata l’economia sociale. Si rammenti che la prima cooperativa sociale nasce a Brescia nel 1971, vent’anni prima dell’approvazione della legge che ne regolamenterà il modo di agire. 

In buona sostanza, l’economia sociale è la risposta alla crisi dello Stato interventista nella sfera del welfare e il suo orizzonte teorico di riferimento è pur sempre il paradigma dell’economia politica: a fronte del fallimento dello Stato (Government failures) e dei fallimenti del mercato capitalistico (Market failures) non resta che dare spazio ai tanti soggetti del Terzo Settore, ai quali viene affidata per mezzo dei ben noti strumenti giuridici (gare al massimo ribasso, accordi quadro etc.) la gestione in autonomia di tutta una serie di servizi e compiti, non però la co-programmazione degli stessi, che resta saldamente in mano agli enti pubblici (ricordo che l’espressione “Terzo Settore” viene coniata in USA nel 1973 da Etzioni e Levitt. Prima si parlava di OMI). Si mette così in pratica la co-progettazione (cioè la sussidiarietà orizzontale), ma guai a parlare di co-programmazione (cioè di sussidiarietà circolare, che è la vera sussidiarietà).

Quale il senso di quanto sopra?

Che quando il paradigma dell’economia civile, in un paio di decenni, diverrà dominante, e con ciò si affermerà una pluralità di modelli ad esso congruenti, l’economia sociale non avrà più motivo di esistere, così come l’abbiamo conosciuta finora, e ciò per l’ovvia ragione che le funzioni da essa espletate rientreranno nel terzo pilastro dell’ordine sociale, cioè nella Comunità. Con il che la dimensione del sociale non sarà più esterna al binomio Stato-Mercato, ma verrà internalizzata nell’ordine tripolare S-M-C. Si noti che già oggi si parla con insistenza di welfare di Comunità. Si ponga mente al fatto che la sentenza 131 del giugno 2020 della Corte Costituzionale, dove per la prima volta si parla esplicitamente di co-programmazione e di co-progettazione, ha già prefigurato un tale esito. 

Prima di lasciare il punto, un ultimo chiarimento.

Non si confonda l’economia sociale, di cui anche la UE parla ormai da qualche anno, con l’Economia Sociale di Mercato (ESM), che è un modello particolare di organizzazione economica, anch’esso rientrante nel paradigma dell’economia politica ed elaborato in Germania nel periodo tra le due guerre mondiali da Eucken e Röpke, e poi ampliato da Müller Armack, collaboratore di Erhard. Già conosciamo la storia dell’ESM e pure le ragioni per cui tale modello è uscito di scena a far tempo dalla fine degli anni Settanta, persino in Germania, dopo però aver prodotto risultati apprezzabili e dunque degno di rispetto. 

Dopo oltre due secoli di quasi totale oblio, cosa ha favorito in tempi recenti la ripresa della prospettiva di sguardo dell’economia civile?

Ricordo che l’espressione “Economia Civile” nasce nel 1753, anno in cui l’Università di Napoli Federico II istituì la prima cattedra universitaria al mondo di economia, denominandola appunto “Economia Civile” (si rammenti che quella di A. Smith era la cattedra di filosofia morale). Sarebbe di interesse cercare risposta alla seguente domanda: dal momento che l’espressione “Economia Politicaera stata coniata nel 1615 dal francese E. Montchretien (Traité de l’economie politique), perché l’intellettualità napoletana di matrice vichiana ritenne di scegliere l’altra denominazione? Se gli economisti fossero meno intellettualmente pigri e meno ideologici, la ricerca di una risposta permetterebbe di comprendere tante cose utili al dibattito attuale.

Tornando alla domanda di cui sopra, ritengo che in aggiunta alla presa d’atto delle insufficienze e delle aporie esplicative del mainstream, già evidenti a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, un grosso impulso a rivedere i fondamenti del discorso economico sia stata la grande controversia tra le due principali scuole di pensiero, entrambe riconducibili allo stesso paradigma dell’economia politica: la scuola classico-keynesiana e la scuola neoclassica. Il riferimento è alla (feroce) diatriba in tema di teoria del capitale e della distribuzione del reddito tra le due Cambridge (UK e USA). Ora, se un medesimo paradigma “genera” al proprio interno due strutture teoriche tra loro in radicale conflitto vuol dire che le sue fondamenta non sono poi così solide da sorreggere l’intero edificio. E infatti le crepe non hanno tardato a rivelarsi. Duplice la loro natura: ontologica e epistemologica.

E’ l’individualismo ontologico la causa dell’incapacità dell’economia politica di far presa sulla realtà.

Il riduzionismo antropologico, quale viene espresso dall’assunto dell’homo oeconomicus ne è la immediata conseguenza. Sul fronte epistemologico la debolezza seria risiede nell’accoglimento del metodo della deduzione assiomatica (cioè dell’argomentazione logica basata su assunti) al posto del metodo scientifico basato sulla deduzione ipotetica e sulla conseguente verifica empirica – come una disciplina che ambisce allo status della scientificità dovrebbe voler fare. Una governing science – tale è la natura della disciplina economica – se costruita sul ragionamento closed-system è destinata all’irrilevanza pratica, oltre che essere pericolosa a livello di policy-making. Se qualcuno nutrisse dubbi al riguardo, si legga con attenzione il saggio di Nicholas Stern – vera autorità in materia – nel recente  “A time for action on climate change and a time of change in economics” (The Economic Journal, 132, 2022).

Nelle conclusioni, Stern scrive:

“Ecco perché penso che sia giunto il tempo di cambiare [paradigma] in economia” (p. 1285). Si veda anche il breve, ma denso, articolo del premio Nobel Angus Deaton: “Is economic failure an economics failure?” (2024). Mi manca lo spazio per aggiungere altre eloquenti testimonianze. Una sola eccezione: D.S. Wilson e D. Snower, “Rethinking the Theoretical Foundation of Economics”, Economics, feb. 2024. Si consideri che il temine “Economics” viene introdotto da A. Marshall verso la fine dell’Ottocento per designare il paradigma dell’economia politica nella sua interezza. 

Le proposte dell’economia civile e le reazioni del capitalismo

Passando al piano dell’agency, quale reazione alle proposte avanzate dall’economia civile si è andata configurando nei paesi dell’Occidente avanzato nell’ultimo ventennio? Nel 2010, negli USA una legislazione ad hoc dà vita alle B-Corp (Benefit Corporations). L’Italia arriva seconda all’approvazione di una legge analoga a fine 2015: nascono le Società Benefit, giunte a tutt’oggi al numero ragguardevole di 4200 circa. Come ci si poteva aspettare, l’interrogativo che fin da subito parecchi hanno sollevato è: quale differenza sostanziale c’è tra una (vera) Società Benefit e un’impresa sociale? Praticamente nessuna, se non di livello. La differenza invece c’è con la cooperativa sociale per via della struttura di governance democratica presente in quest’ultima e non nella prima. Ancora più marcata è la differenza con le associazioni di volontariato, con le APS (Associazioni di Promozione Sociale) e con le ONG. 

E allora?

Con tutti i distinguo che il caso esige, è possibile indicare una duplice reazione: quella dei patriotic millionaires e quella dei woke capitalists. Si tratta di soggetti appartenenti alla categoria dei super ricchi.  Il motto dei primi è: “In tax we trust”. Costoro chiedono ai governi di accrescere considerevolmente la pressione fiscale a loro carico (fino al 60% dei redditi conseguiti) a condizione di essere “lasciati in pace” (non v’è bisogno di essere espliciti al riguardo). 

Diversa, invece, la strategia perseguita dai woke capitalists (Cfr. R. Rhodes, Woke capitalism, Princeton University Press, 2023). La proposta che costoro avanzano è che, poiché la politica non è più in grado di assecondare le aspettative di benessere dei cittadini e poiché gli enti di Terzo Settore non hanno la forza, pur avendone la volontà, di provvedere alla bisogna, i ricchi e i super ricchi si fanno carico di sostituire lo Stato nell’assolvimento del compito in questione, a patto di non venire gravati da un’imposizione fiscale sul reddito superiore al 15%. L’esito di questo ribaltamento di posizioni, qualora venisse assecondato, non potrebbe non manifestare tutta la sua pericolosità ai fini della tenuta della democrazia.

Mai si dimentichi, infatti, che la magnificenza non è la stessa cosa della munificenza.

La prima significa infatti trasformare la ricchezza privata in beneficio pubblico allo scopo di rivendicare il proprio onore e il diritto a governare (Cosimo de’ Medici salvò bensì Firenze dalla bancarotta, ma se la comprò!). La seconda, invece, rinvia al concetto di dono come gratuità.

Tanti sono ormai gli episodi, soprattutto nell’ambiente anglosassone, che confermano una tale tendenza. Si pensi alle Fondazioni d’impresa; alla nuova filantropia d’impresa; al marketing sociale e coì via. L’idea è quella di stimolare la filantropia d’impresa a diventare più strategica e meno reattiva, canalizzando le risorse in modo professionale verso progettualità che siano sinergiche con le imprese stesse e con la Pubblica Amministrazione (si veda l’ultimo rapporto dell’EUTAX Observatory, Il Centro Studi Europeo diretto da Gabriel Zucman).

Il Nobel Michael Spence è uno dei più influenti sostenitori della filantropia d’impresa come motore dello sviluppo sociale.

Nell’articolo del 14/7/2024 su Il Sole-24Ore scrive: “Dobbiamo smettere di applaudire la ricchezza fine a se stessa… La ricchezza diventa degna di essere celebrata solo quando è impiegata al servizio del benessere umano”. Ovviamente, non ci si interroga sui modi, e cioè sul come, la ricchezza è stata accumulata. Basta finalizzarla al benessere umano per cancellare ogni perplessità etica. Da notare come addirittura Leon Walras, il padre della teoria dell’equilibrio economico generale, a fine Ottocento aveva inveito contro tale concettualizzazione. Una lettura importante, a tale riguardo è quella di K. Pistor, “American business will regret writing off democracy”, Project Syndacate, 3 giugno 2024.

Senso e orizzonti dell’impegno di NeXt: cambiare le regole del gioco, innovare le istituzioni 

La domanda che a questo punto sorge è: se una tendenza del genere dovesse irrobustirsi e consolidarsi, cosa devono fare coloro che, riconoscendosi nel paradigma dell’economia civile, non accettano il consequenzialismo utilitarista? Una associazione come NEXT non può non adoperarsi per fornire una risposta plausibile all’interrogativo posto. E la risposta c’è! Nel prossimo paragrafo mi limito a suggerire un sentiero di ricerca mirato a discutere la relazione tra pratiche e istituzioni. So bene che vi sono anche altre proposte che si vanno avanzando, ma sono dell’avviso che quella indicata meriti prioritaria attenzione. Vedo di darne ragione.

Sappiamo che i tratti comportamentali che si osservano nella realtà (pro-sociali, asociali, antisociali) sono da sempre presenti nelle società. Quel che muta da una società all’altra è la loro combinazione: in alcune fasi storiche prevalgono comportamenti antisociali e/o asociali, in altre quelli prosociali, con esiti sul piano economico e su quello del progresso civile che è facile immaginare.

Si pone la domanda: da cosa dipende che in una società, in un dato periodo storico, la composizione organica dei tratti comportamentali veda la prevalenza dell’un tipo o dell’altro?

Il fattore decisivo, anche se non l’unico, è il modo in cui si arriva a disegnare il sistema istituzionale, cioè le regole del gioco. Se il legislatore, facendo propria una antropologia di tipo hobbesiano – quella dell’homo homini lupus – , confeziona norme che caricano sulle spalle dei cittadini pesanti sanzioni e punizioni allo scopo di prevenire atti illegali da parte degli antisociali, è evidente che i cittadini prosociali (e quelli asociali), che non avrebbero certo bisogno di quei deterrenti, non riusciranno a sopportarne il costo e quindi, sia pure obtorto collo, tenderanno a modificare per via endogena il proprio sistema motivazionale. (E’ questa una violenza morale intollerabile che troppi ipocriti sedicenti democratici continuano ad avvalorare).

È questo il cosiddetto meccanismo del crowding out (spiazzamento): leggi di marca hobbesiana tendono a far aumentare nella popolazione la percentuale delle motivazioni estrinseche e quindi ad accrescere la diffusione dei comportamenti di tipo antisociale. Proprio perchè i tipi antisociali non sono poi così tanto disturbati dal costo dell’enforcement delle norme legali, dal momento che cercheranno sempre in vari modi di eluderle. (Si veda quel che accade con l’evasione e l’elusione fiscale). 

Il punto generale che desidero sollevare è che la concezione hobbesiana, secondo cui l’agire politico inizia e si esaurisce dentro le istituzioni statuali, non funziona più – se mai ha funzionato. L’orizzonte hobbesiano non prevede la partecipazione in senso proprio dei corpi intermedi della società; tollera solo organizzazioni di tipo associativo con il fine della reductio ad unum delle volontà individuali.

L’obiettivo è sempre quello di spoliticizzare la intrinseca politicità della società, per concentrarla dentro le istituzioni rappresentative.

Il che è diventato intollerabile, oltre che non più funzionale allo sviluppo umano integrale. È questa la ragione ultima per cui abbiamo bisogno di dare ali alla sussidiarietà circolare. Invero, a nessuno sfugge che oggi ci si preoccupa più di proteggere i diritti individuali che di realizzare l’autogoverno: si allarga la libertà dell’individuo, ma si restringe quella del cittadino, poiché si restringe il “governo di se stessi”. Ne consegue che il governo democratico viene sostituito da una sovranità delle regole. Regole che provengono da tutti i tipi di agenzie pubbliche e private, la più parte delle quali non ha alcuna legittimità o rappresentatività democratica. 

Una famiglia assai peculiare di atti umani è quella delle pratiche (la praxis aristotelica).

Secondo MacIntyre (2024), una pratica è qualsiasi forma coerente di attività umana cooperativa mediante la quale i valori insiti in tale forma di attività vengono realizzati nel corso del suo svolgimento. I valori interni alla pratica coincidono con i fini che coloro che operano intendono perseguire. Inoltre, essendo un’attività di tipo cooperativo, la pratica è governata da regole che vanno rispettate. L’eccellenza che ogni pratica tende a raggiungere va intesa come realizzazione delle virtù etiche e razionali, le quali non sono perciò da considerarsi come mezzi, ma come fini.

 Tuttavia i fini interni di ogni pratica sono perseguibili solo grazie alla disponibilità di beni strumentali.

Ogni pratica necessita quindi di istituzioni che forniscano tali beni esterni (la presenza di istruttori; premi di riconoscimento; un luogo adeguato al suo svolgimento; le risorse finanziarie). Nel momento in cui i beni esterni – i “beni dell’efficienza” – acquisiscono un primato rispetto a quelli interni (i “beni dell’eccellenza”, secondo la terminologia di MacIntyre) ci troviamo di fronte ad una degenerazione. E’ questa una possibilità connaturata a tutte le pratiche, ma nella seconda modernità in cui viviamo essa è divenuta talmente pervasiva da far perdere di vista il suo carattere di eccezionalità, al punto che del concetto di bene di eccellenza oggi quasi mai si parla. Sta in tale inversione assiologica l’origine dei guasti che è dato osservare.

Nel momento in cui il concetto di bene interno diviene sempre più invisibile, si perde la distinzione fra pratiche e istituzioni, favorendo così la diffusione dell’individualismo singolarista.

La tendenza tipica della modernità a ribaltare la tradizionale gerarchia tra beni di eccellenza e beni di efficienza trova il suo apogeo nella corporate modernity, caratterizzata dalla pervasiva diffusione di grosse strutture aziendali e burocratiche, siano esse pubbliche o private. Nel contesto organizzativo della corporation prevale la razionalità di tipo strumentale, la professionalizzazione delle procedure e soprattutto la compartimentalizzazione dei ruoli. In conseguenza, assistiamo ad un cambiamento della natura stessa delle virtù, le quali diventano mere abitudini del soggetto che servono a renderlo più fit e quindi più efficiente.

Dov’è allora possibile individuare nella “corporate modernity” un punto di resistenza nei confronti dei suoi effetti alienanti e reificanti?

Non basta dire che occorre far leva sulle pratiche, visto che le big corporations riescono quasi sempre ad imporre il primato dei beni dell’efficienza su quelli dell’eccellenza. Serve allora battere altre strade, senza mai dimenticare che le istituzioni sono necessarie allo sviluppo delle pratiche. Ecco perché è oggi prioritario intervenire sulle regole del gioco, cioè sulle istituzioni che – come noto – hanno a che vedere con le strutture di potere che presiedono alla distribuzione di risorse e benefici. Un solo esempio per chiarire: la medicina è una pratica; l’ospedale è un’istituzione. La prima inventata dai greci; la seconda dalle confraternite toscane del XIII secolo! E’ oggi giunto il tempo di dare vita a nuove istituzioni adeguate al contesto odierno, pur continuando ad alimentare e sostenere le pratiche (per rimanere all’esempio: l’istituzione ospedale oggi non sarebbe più sufficiente a migliorare la salute). 

Non basta più assegnarci il compito di “minoranze profetiche”, come finora è stato (e non poteva essere diversamente), adoperandosi a tappare i buchi e correggere le falle di istituzioni basicamente estrattive come sono quelle attuali. Dopo un paio di decenni di sperimentazione di pratiche, NeXt deve ora porsi alla guida di un processo di autentica innovazione sociale, che miri a creare nuove istituzioni, le quali – mai si dimentichi – sono spazi morali e non già spazi eticamente neutri, come il mainstream, finora, ci ha fatto credere. Benedetto da Norcia per rispondere alla sua missione crea il monastero, che è la più notevole istituzione socio-economica di ogni tempo. Si legga l’incipit della Regula Benedicti

Mi sia consentito un riferimento personale.

Il D.Lgs. 463/1997, che ha sancito la nascita della nuova figura delle ONLUS, è stato pensato e materialmente composto al di fuori del Parlamento, il quale si è “limitato” ad approvarlo con qualche lieve modifica. Non v’è chi non veda quale e quanta rilevanza strategica questo Decreto ha avuto per lo sviluppo e l’avanzamento delle organizzazioni della nostra società civile, tanto da aver aperto la strada all’approvazione, nell’agosto del 2017, del Codice del Terzo Settore. Ecco: NEXT deve (perché ne ha le capacità) attribuirsi il compito di avanzare progetti veri e propri (non bastano le proposte) tendenti a modificar o a introdurre nuove regole del gioco. Saranno poi i Consigli Regionali o il Parlamento a codificarle. 

Conclusioni 

Quanto va fatto, con urgenza, è tornare a pensare e non solo ad occuparsi di singole opere, pur altamente meritorie. Uno dei guasti più seri che l’egemonia culturale del mainstream economico ha creato è proprio questo: che non c’è bisogno di pensare, perché l’importante è fare. Ma si può agire se l’azione non è preceduta da un pensiero? Come otto secoli venne introdotto in Gran Bretagna il diritto all’habeas corpus, dobbiamo oggi batterci per affermare l’habeas mentem, introducendo nella dichiarazione universale dei diritti dell’uomo il diritto a non subire manipolazioni della mente, come oggi sta accadendo (Si pensi al fenomeno delle fake truths, che sono ben altra cosa delle fake news, sempre esistite). Prendersi cura della mente è oggi un compito irrinunciabile per un soggetto come NeXt Nuova Economia per Tutti, che mai ha dimenticato la sua sorgente.

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